Il progetto fotografico ARCHÈO ruota attorno a una storia interrotta. La storia di un mondo, una volta abitato, che si è fermato e di cui restano solo le tracce di un vissuto domestico passato, avvolto nel silenzio e in una lunga attesa, come se il tempo stesso avesse perso la sua consistenza. Che valore hanno le cose? Sulla base di questo quesito, ho condotto una ricerca fotografica attraverso le case delle persone, nello specifico nelle loro soffitte, cantine, depositi e scantinati, quei luoghi in cui sono riposti oggetti di una vita, scatole e ricordi da proteggere e custodire come fossero rarità preziose. Luoghi di cura dove, col passare del tempo, queste cose vengono dimenticate, lasciate ai margini lì dove non possono essere viste come in una topografia di oggetti, una costellazione sotterranea. La polvere custodisce e protegge gli oggetti e assieme alla luce gli dona nuova vita. Su ogni oggetto toccato, resta l’impronta di una storia personale e universale. Gli oggetti parlano. Ci parlano degli affetti quotidiani e dei sogni della notte e poco importa se ci sono appartenuti. La forza delle loro storie ci sorprende sempre, come un piccolo miracolo capace di valicare lo spazio e il tempo e di far riaffiorare alla nostra mente e nella nostra anima, storie sopite ma mai sepolte che ci riportano alla radice del tempo. Nel caos e nella pienezza di questi spazi, ho posto la mia attenzione ai vuoti, lì dove qualcosa mancava, lì dove c’era ho cercato ciò che non c’è, in una epidemia di indipendenza dalle “cose”, che si diffonde e radicalizza, ho concentrato lo sguardo lì dove le cose invece restano, lì dove gli oggetti stessi decidono di fermarsi come a voler sfuggire alla loro natura di muti testimoni. Le storie che ho cercato prendono forma nei silenzi e nei vuoti degli oggetti fotografati, che sembrano essere lì da secoli, ai limiti del tempo e dello spazio, scoloriti dal passare degli anni, memoria di luoghi che sono stati spettatori di eventi umani. Non un semplice deposito di cose, ma materia vivente, dove la memoria non appare congelata bensì spazio organico i cui frammenti si ricompongono in un modo nuovo e inaspettato. Cantine e soffitte in cui le persone hanno depositato le proprie memorie in attesa di un tempo imprecisato in cui sarebbero state ritrovate; il momento in cui la soffitta viene riaperta e la polvere spazzata via, ridando aria e respiro a quei luoghi sepolti, obbligati ad una fissità fisica e temporale, sospesi mentre tutto attorno scorre. Come in un rapporto di verticalità e di tensione tra due abissi lo spazio-soffitta diventa laboratorio della memoria e deposito dell’anima. Gli oggetti come monoliti nella terra, muti e senza peso, diventano archivio della memoria e le immagini documenti storici di un vivere quotidiano e intimo: un’archeologia domestica composta da storie addormentate nella loro forma.
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Gennaio 03, 2020