La malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Chiunque nasca ha la doppia cittadinanza del regno del bene e del regno del male. Anche se tutti preferiamo usare solo il passaporto buono, prima o poi ognuno di noi è costretto, almeno per un po’, a identificarsi come cittadino di quell’altro luogo” – Susan Sontag (La malattia come metafora) “È stata proprio questa malattia, la paura della sua ricaduta e le sue conseguenze, a provocare in me un’inevitabile necessità di sentire di nuovo, un’urgenza di ritrovare il desiderio di vivere, di tenere un diario, un diario che sarebbe diventato il frammento più importante della vita stessa”. Affrontare la tubercolosi alla giovane età di 17 anni mi ha costretto a vivere in isolamento per un periodo prolungato. La paura e la vergogna di perdere la mia giovinezza e di non vivere una vita significativa mi hanno sopraffatto. Dopo qualche anno, il suicidio di un amante mi ha messo in una posizione simile: una certa alienazione, disperazione e incapacità di venire a patti con il trauma della perdita e della morte. La necessità di trovare uno scopo per vivere di nuovo era l’unica via d’uscita. Si dice che le tragedie formino l’uomo che c’è in noi. The Weight of the Earth riflette la mia comprensione del desiderio umano, del genere, dell’identità e del rapporto spesso trascurato ma complicato tra lutto e malinconia. Cerco di raggiungere questo obiettivo attraverso i miei incontri con gli sconosciuti – coloro che mi hanno dato un rifugio e una parvenza di speranza, diventando poi miei cari amici. Questo viaggio diaristico comprende una moltitudine di ritratti di individui che spesso vivono vite complicate nel paesaggio socialmente e politicamente frammentato dell’America. L’altra parte comprende immagini di sé, autoritratti e fotografie, spesso scattate da altri, creando un giocoso avanti e indietro tra sé e l’altro. Attraverso silenziosi momenti di vicinanza, in cui la realtà violenta della vita è spesso colorata da una bella fantasia, cerco di sollevare qui la questione dell’autoaffermazione. L’immagine lega il mio passato al presente, intrecciando le nostre lotte collettive e individuali. La fotografia crea una finzione intorno a noi e, attraverso questo gioco di scambi intimi, mi avvicino alla comprensione di cosa significhi occupare un’esistenza “queer” nel mondo di oggi, in particolare come “straniero” dell’Asia meridionale in America. Il gioco affronta l’ambiguità e l’anonimato delle nostre identità individuali e collettive condivise. Questo viaggio si sforza di guardare oltre le zone presupposte dell’identità e della rappresentazione, abbracciando i gesti del corpo, del desiderio e dello spazio. È un tentativo di ripensare l’anonimo, l’erotico e le forme incerte della socialità – la morte, la scomparsa e il passaggio frammentario di persone e luoghi.
Gennaio 03, 2020