La diagnosi di un linfoma di Hodgkin al IV stadio avanzato mi ha offerto l’opportunità di toccare con mano l’importanza vitale della fotografia, che ora è diventata per me anche uno strumento di cura. Il decorso della malattia e la terapia che ho affrontato in questi mesi sono stati un invito ineludibile a riflettere sull’inversione forzata e necessaria che la mia pratica ha subito: per la prima volta ho forzato lo sguardo verso me stesso, o meglio, dentro di me. Rifacendomi alle teorie di Flusser, sono trasformato in input assaporati e rielaborati da una serie infinita di algoritmi che costituiscono il “meta-bolismo” delle black-box a cui sono sottoposto, dispositivi e strumentazioni diagnostiche di ogni tipo (ultrasuoni, raggi X, TAC, PET) con cui mi interfaccio quotidianamente. Divento materia prima masticata da una mente digitale le cui sinapsi sono complesse elaborazioni elettroniche che immagino essere, per assurdo, il meccanismo di sviluppo di una quasi libera interpretazione dei suddetti dispositivi. Attraverso vari software ho scrutato ed esplorato diagnosi, immagini tecniche pure e irrisolte se non soggette a interpretazione umana. Divento voyeur, osservatore, esploratore e soprattutto manipolatore di un corpo immerso nella materia immateriale che riempie l’infinito di un mondo virtuale fittizio di cui il feticcio virtuale di me stesso è protagonista. Tale operazione mi ha portato nel tempo a rendermi conto di essere io stesso una scatola nera in grado di produrre anomalie, masse, incongruenze, risultati che sono la risposta consequenziale, elaborata attraverso “algoritmi biologici”, a una serie di input inviati da un mondo esterno che ogni giorno altera e contamina l’intima natura umana. Il mio.
Gennaio 03, 2020