Untitled
Ho conosciuto Ahmed nel 2017 in un centro di reinserimento sociale per giovani in difficoltà. Tramite i social network, ci siamo incontrati di nuovo due anni dopo. Diminutivo, soprannome, pseudonimo: MIDO è un modo per confondere le tracce della sua traiettoria incerta. Presentandosi sotto diverse identità quando incontra le persone, Ahmed si nasconde tanto quanto vuole essere scoperto. Attraverso un percorso di vita caotico e costellato di elementi dolorosi, sopravvive con il sogno di diventare un modello. La sua grande fragilità, il suo carattere autodistruttivo e la sua capacità di rivelarsi mi hanno convinto a seguirlo nella sua vita quotidiana nel quartiere Marx Dormoy di Parigi.
Minacciato di espulsione e poi imprigionato, il progetto continua in nuove forme di scrittura. Infatti, nonostante la sua assenza, siamo rimasti in contatto. Dalle fotografie che ho scattato nella sala visite del Centre de Rétention Administrative alle immagini che Ahmed mi ha inviato dalla sua cella, l’immagine pixelata dei vecchi telefoni cellulari è diventata il mezzo per ricostruire questo contesto. La fragilità dell’immagine a bassa definizione coincide con la progressiva perdita di libertà.
L’uso di questi diversi mezzi di cattura (digitali, usa e getta, immagini scattate con il cellulare, archivi…) risponde a una necessaria coerenza estetica rispetto al soggetto. Da una realtà fantasticata a un confino molto reale, dalla finzione pittorica all’astrazione del pixel, le diverse qualità dell’immagine accompagnano ogni aspetto della vita di Ahmed. Come uno specchio frammentato, queste fotografie dipingono il ritratto di questo giovane in divenire, ancora alla ricerca di se stesso in una società in cui fatica a trovare il proprio posto.
Gennaio 03, 2020